Cartolina da...Miami: SIlvia Carli


“Qui mi sembra tutto un film!” Non faccio altro che ripetermelo da quando sono arrivata: i giocatori di football e le cheerleaders, gli hamburgers e gli smooties, lo skyline che ha fatto da sfondo a tante serie televisive e l'oceano sconfinato. Come dove sono? Vi dicono niente nomi come Ocean Drive o South Beach? Ebbene sì, sono a Miami, perla della Florida e città che mi sta ospitando in questo mio anno da freshman (matricola) presso la Florida International University. Il campus è immerso nel verde e le strutture sportive offrono tutto quello che un atleta potrebbe sognare: piscina, sala pesi super attrezzata, file di tapirulan con conta “miles” - e non chilometri, siamo in America! - vasca con acqua gelata per tonificare i muscoli e soprattutto tanti macchinari per le terapie. Se hai bisogno di un massaggio o di una fasciatura all'ultimo momento, sai sempre che c'è qualcuno lì per te. E questo ti dà tanta sicurezza e tanta voglia di fare.

Io sono arrivata a giugno, quando mancava ancora qualche mese all'inizio della pre-season. Durante questo periodo - chiamato open-gym e nel quale gli allenatori non possono stare in palestra - ho lavorato davvero sodo per essere pronta ad affrontare al meglio la mia prima stagione nella NCAA americana. E devo dire che arrivare prima è stata la mia fortuna! Non parlo solo dal punto di vista fisico, ma soprattutto da quello mentale: la cultura americana è infatti molto diversa da quella europea, soprattutto quando si parla di sport. In Italia, per esempio, tutto è molto più tecnico; qui negli Stati Uniti, si lavora invece soprattutto a livello mentale: tutti cercano di farti sentire speciale e una vera campionessa. Avete in mente quei discorsi spirituali pieni di citazioni e parabole che si ascoltano nei film dedicati agli sport? Frasi ad effetto del tipo “questa potrebbe essere l' ultima partita della vostra vita” che l'allenatore proferisce prima del grande match ? Funziona davvero così! E non è solo il coach a farli: infatti, a turno, ognuna di noi deve fare una preghiera o un discorso di incitamento pre gara. Inoltre, la nostra allenatrice a fine stagione ha fatto un colloquio personale con ciascuna di noi atlete e ci ha dato da fare un tema nel quale dovevamo parlare dei nostri propositi per il prossimo anno, di quello che volevamo migliorare e di quello che ci aspettavamo. Potrebbe sembrare una classica “americanata” ma a me è servito a creare una mentalità vincente.

Ho inoltre instaurato un bellissimo rapporto con il mio coach, Danijela Tomic, e lei ha sempre avuto delle parole positive per me. Certo, da matricola non ho potuto fare molto, ma penso di aver dato un grande contributo alla squadra: in campo sono una che si fa sentire, che urla, che vuole fare la sua parte in ogni singola partita... e alla fine il mio impegno è stato premiato. Dopo due mesi sono infatti entrata come titolare e in poche partite mi sono piazzata seconda nella speciale classifica dei muri: un ottimo risultato arrivato grazie anche alla fiducia che Danijela ha riposto in me. E soprattutto alla super preparazione a cui siamo state sottoposte. Sembrava che fino a quel momento non mi fossi mai allenata in vita mia! Un esempio: il “river test”, il mio peggior incubo. Una mattina, il nostro coach ci ha portato nel campo da basket e con voce solenne ci ha annunciato che avremo fatto il temibile “river test”: una batteria infinita di scatti e corse a tempo con 40 secondi di pausa tra una serie e l'altra. Arrivi alla fine che il tuo corpo perde le funzioni vitali...e non sto scherzando! La leggenda narra che Danijela lo facesse ripetere all'infinito a chi non riusciva a passarlo la prima volta: fortuna che io ce l'ho fatta al primo tentativo! In quel momento, quando finisci l'ultimo scatto e sai di avercela fatta ti senti un vero atleta e ti riempe di soddisfazione. Loro ci tengono tanto a queste cose: se abbandoni è come dire che la squadra e le tue compagne non possono ne' contare ne' fidarsi di te... è quindi importante dare il massimo in queste cose.

E io voglio lasciare davvero il segno in questa squadra! Sono sicura di potercela fare perché qui mi sento davvero a mio agio e ho trovato il mio equilibrio: non avendo altre compagne nel mio corso di studi, passo molto tempo da sola a studiare e a riflettere su me stessa. In questo modo sento di essere più consapevole di me, delle mie scelte e dei miei obiettivi. So per esempio che non voglio mai più fare cose che non sento mie, che voglio fare le mie scelte, quello che mi rende felice. Proprio come è avvenuto con la decisione di partire per gli Stati Uniti: per la prima volta sto vivendo un'avventura solo mia, una cosa che ho voluto dall'inizio alla fine e che appartiene solo a me.

Il tutto è iniziato circa due anni fa, quando ero al Club Italia. Durante il campionato avevo avuto modo di parlare con le atlete americane che giocavano contro di noi: a me piaceva parlarci perché ho sempre amato l'inglese sin da quando facevo le scuole medie. Chiacchierando con loro della vita e della pallavolo d'oltreoceano, mi sono convinta che mi sarebbe piaciuto lasciare tutto e andare negli Stati Uniti. I miei genitori hanno fatto di tutto per convincermi a non partite. Ma niente da fare, io avevo preso la mia decisione e avevo già iniziato a compilare la domanda di ammissione. E che domanda! La NCAA, l'ente che regola lo sport universitario americano, ha regole molto severe e controlli molto serrati sui propri atleti e quindi la domanda di ammissione era davvero molto complessa. Avevo paura di non farcela: quando mi hanno detto che ero stata accettata alla FIU sono stata molto orgogliosa di me perché ce l'avevo messa davvero tutta per poter entrare ed era la dimostrazione che se davvero vuoi una cosa la puoi ottenere. Inoltre, qui, sto realizzando anche quale potrebbe essere il mio futuro!

Di tornare in Italia, sinceramente, ancora non ci penso: sono al mio primo anno e ne ho altri tre davanti a me nei quali poter giocare e studiare per diventare una fisioterapista. Eh già! Ho capito che questa potrebbe essere la mia strada: voglio studiare e diventare qualcuno in questo campo. Ci sarebbe inoltre la possibilità unica di avere il master in fisioterapia tutto spesato rimanendo come assistant coach presso la squadra: un'occasione unica che non penso di lasciarmi sfuggire! Qui, anche se la stagione è molto breve, è anche molto intensa. Basti pensare che le trasferte le facciamo in aereo e non in autobus come in Italia. Quando sono arrivata, pensavo che la Sun Belt Conference, alla quale appartiene la nostra università, si sarebbe giocata solo in città della Florida,in posti che potevamo raggiungere in autobus in qualche ora... invece mi sono ritrovata a spostarmi continuamente con viaggi che iniziavano il giovedì mattina e terminavano la domenica sera. Spesso poi si giocavano due partite nei weekend in due posti diversi e nemmeno tanto vicini: capitava per esempio di doversi spostare dall'Arkansas a Denver, dal Kentucky alla Florida nel giro di poche ore. Lì ti rendi conto della differenza con l'Italia e soprattutto del fatto che non hai tempo per lamentarti perché la stagione è talmente corta e i ritmi tanto intensi che non te ne rendi nemmeno conto: non puoi permetterti di rilassarti e devi sempre dare il 100%.

Quest'anno la nostra corsa si è fermata proprio ad un passo dal vincere la nostra conference e disputare poi le fasi finali del torneo NCAA. Oltre ad aver perso proprio davanti al proprio pubblico, il rammarico più grande è stato il fatto di non aver ricevuto l'anello che viene dato a chi vince la propria conference: io voglio quell'anello e questo sarà il mio obiettivo per la prossima stagione! Ma le differenze con l'Italia non finiscono qui. Essere atleti nei campus americani vuol dire infatti essere una specie di “celebrità”: tutti ti conoscono, tutti hanno parole di incoraggiamento per te e tu sei “amica” di tutti! Ti senti super coccolata da tutti e il pubblico è davvero molto caloroso: dopo una sconfitta sono tutti pronti a consolarti. Le uniche a non essere proprio dalla nostra parte sono le cheerleaders, a volte un po' gelose nei nostri confronti.

Il motivo? I giocatori di football! Come nei più classici film americani, il connubio cheerleader-giocatore di football è una specie di status quo, e per questo non sempre sono contente quando i loro quaterback vengono a fare un tifo scatenato per noi sugli spalti! Durante le partite, poi, è proprio come in TV, con l'inno americano cantato prima di ogni singolo match, le bandiere americane che sventolano e la banda che suona. La cosa che mi ha più colpito però è stata un'altra che non mi aspettavo davvero: il riscaldamento separato. Innanzi tutto, il riscaldamento si fa con delle maglie diverse da quelle di gara: una volta finito, si ritorna negli spogliatoi e ci si cambia. Poi, come nel più vero stile a stelle-e-striscie, tutto deve essere una sorta di coreografia con le due squadre che si alternano sul campo da gara: la formazione di casa fa iniziare le ospiti per quattro minuti, poi si cambia; di nuovo le ospiti con gli attacchi e poi nuovamente le padroni di casa. Sinceramente è un aspetto che non mi piace molto, perché si perde la concentrazione e non ha senso stare a guardare le altre mentre si potrebbe palleggiare a metà campo. Stranezze degli Stati Uniti!

Per non parlare degli orari degli allenamenti. Questa è la mia giornata tipo: sveglia alle 6.30; pesi dalle 7 alle 8; se ho tempo vado a fare colazione, altrimenti mi aspetta la seduta di fisioterapia per prepararmi ai veri e propri allenamenti che iniziano alle 9 e vanno avanti a ritmi serrati fino alle 12. Doccia, pranzo e.... lezioni! E sì, perché alla fine siamo sempre in un college e sempre secondo le regole NCAA, noi atleti dobbiamo adempiere anche ai nostri doveri di studenti per otto ore alla settimana, fatta eccezione per la settimana di trasferte quando ci aspettano “solo” sei ore di studio. Abbiamo addirittura un nostro “academic center” aperto dalle 7 del mattino alle 9 di sera anche la domenica: in poche parole, non abbiamo scuse per non poter studiare! Dite che sia impossibile tenere il ritmo ed organizzarsi? Io sinceramente ci riesco abbastanza facilmente, anche perché è da quando ho 15 anni che non sono a casa e ho imparato a organizzare i miei impegni al meglio.

Dopo sei mesi mi sento davvero “americana”: mi piace tanto lo stile di vita, la cordialità delle persone, la musica, i locali, e ho trovato persino un certo equilibrio con il cibo. Come leggenda vuole, qui è tutto più grasso e pieno di zuccheri: basta ordinare tutto “sugar-free” e prendere piccoli provvedimenti e anche il rischio di prendere troppi “pounds” è scongiurato! Miami è poi un miscuglio di culture e stili che è impossibile non innamorarsi di questa città.

Non c'è che dire: I LOVE MIAMI!

L'articolo e la foto sono pubblicati sul numero di febbraio 2012 di Pallavoliamo.

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