Marco White Bianchi, il supereroe italiano dello SlamBall


Alzi la mano chi non hai mai sognato di schiacciare a canestro come un personaggio di un videogioco della PlayStation o Xbox?
È stata proprio questa domanda e il sogno di “fare giocate che solo i giocatori in pixel potevano permettersi” a spingere a Mason Gordon nei primi anni del 2000 a gettare le fondamenta di quello che di lì a poco sarebbe diventato lo SlamBall. Partendo da un campo assemblato a mano dentro un magazzino, lo SlamBall negli anni è andato evolvendosi diventando un gioco estremamente rapido e dal grande tasso di spettacolarità. La genialità di Gordon è stata infatti quella di posizionare sotto le plance quattro tappeti elastici che avrebbero permesso agli atleti di spiccare letteralmente il volo ed eseguire la loro schiacciata, quel dunk che ogni giocatore – quale sia il suo ruolo o lega – sogna di poter segnare a referto.
In pochi anni, lo SlamBall ha conquistato l’attenzione dei media statunitensi per poi raggiungere anche l’Europa grazie al produttore Andrea Fabbri che ne intuì le potenzialità mediatiche facendolo sbarcare anche in Italia, dove è stato trasmesso  cinque anni fa su Italia 1 e GTX con la telecronaca di Ciccio Valenti e Dan Peterson.
Ed è proprio così, guardandolo in TV, che Marco White Bianchi ha conosciuto questo gioco: “uno sport nel quale lo scopo principale è schiacciare…non me lo potevo certo perdere! Io sono un giocatore molto verticale e che ha un’ottima elevazione. Schiacciare per me è il massimo e nello SlamBall il dunk è la quintessenza del gioco. Così, quando il tour è sbarcato a Riccione per una tappa promozionale, ho colto al volo l’occasione e sono sceso in campo…anzi…sono saltato sui tappeti elastici e ho fatto quello che mi diverte di più al mondo: schiacciare a canestro”.
Così, Marco diventerà il primo europeo a giocare da professionista nello SlamBall: il riccionese prenderà infatti parte al tour promozionale in Cina dei Los Angeles Maulers. A fargli da mentore e a guidarlo in questa nuova avventura, sarà “il  Micheal Jordan dello SlamBall”: Stan Fletcher. “È stato lo stesso Fletcher a chiedermi amicizia su Facebook grazie all’amicizia in comune con Fabbri” – ricorda Marco – “ed è così che ho siglato il contratto che mi porterà in tour con i Los Angeles Maulers, una delle squadre più forti della lega: se Fletcher è come Jordan, bé, i Maulers sono un po’ come i Miami Heat del 2012 e del 2013: i migliori. Quello di andare in giocare per una squadra americana era da sempre un mio sogno e grazie allo SlamBall e ai Maulers lo realizzerò non appena inizierò il tour in Cina. Poi ce ne sono altri due: vincere una gara delle schiacciate e vincere il campionato, e ce la metterò tutta per poterli incoronare.
Essere stato contattato direttamente da Fletcher è per me un grande onore” spiega Marco che proprio per non deludere le aspettative del suo nuovo mentore si è subito messo al lavoro: “quando si gioca a SlamBall è indispensabile lavorare su tutto il  corpo allenando cioè tutti i muscoli. Per questo appena ho saputo della convocazione mi sono messo subito al lavoro seguendo la scheda di allenamento che mi hanno mandato direttamente da Los Angeles. Il fatto di dover saltare continuamente e la velocità del gioco, fa sì che si sudi davvero tanto ed è quindi importante essere preparati fisicamente.
E non solo. Anche se il suo contratto per il momento si limiterà al solo tour cinese, Marco ha già ben chiaro il suo futuro e come raggiungerlo: “So già che farò di tutto per convincere il coach a portarmi con lui anche nel campionato americano. E sono disposto a lavorare sodo per raggiungere questo obiettivo. Quando sarò in Cina, per me non ci saranno gite alla Muraglia Cinese o a qualche tempio: il mio tempo libero lo passerò in palestra con Fletcher ad allenarmi e ad affinare la mia tecnica di gioco. Non a caso ho scelto la maglia numero 1: sono il primo italiano, anzi, il primo europeo a diventare un professionista in questo sport; e un giorno, proprio come Fletcher, voglio diventare il numero 1 nello SlamBall. Potrò sembrare un po’ sbruffone nel dire questo, ma ci tengo davvero tanto: in questo tour , non rappresenterò solo me stesso, ma anche l’Italia”.
Ma la strada verso la vetta è assai dura; e non per modo di dire. Nelle intenzioni del suo fondatore, lo SlamBall doveva essere un gioco fisico, di contatto, un po’ come il football e l’ hockey piuttosto che il basket. Infatti, le azioni dello SlamBall ricordano più i placcaggi della NFL o le cariche contro le balaustre dell’hockey : “il contatto fisico è un po’ l’anima di questo sport e ci si deve allenare specificamente su come ricevere i colpi e come cadere a terra” – spiega il gunner dei Maulers – “Nel momento in cui inizi a palleggiare, puoi essere atterrato in qualsiasi momento e ricevere colpi durissimi”.
Etichettare lo SlamBall solo come uno sport “duro” e “fisico” non sarebbe però del tutto corretto. Tra tutti quei contatti durissimi e in tutti quei salti c’è infatti spazio anche per un po’ di arte e di – chiamiamola così – poesia: “nel momento in cui ti atterrano, ti ritrovi l’avversario con la faccia vicino alla tua che ti urla qualcosa o che ti insulta in qualche maniera innovativa….anche questo fa parte del gioco ed è l’aspetto che mi esalta di più” scherza Marco. “E, anche se può sembrare un po’ un controsenso, in questo sport c’è anche un tocco artistico. Il dunk dello SlamBall non è quello del basket: grazie ai tappeti elastici, infatti, è possibile saltare di più e quindi avere il tempo di mettere insieme varie figure, vari trick che rendono la tua schiacciata unica e personale. Fletcher in questo è stato un grandissimo innovatore, ed io stesso ho perfezionato la “schiacciata White: se voglio vincere la gara delle schiacciate la devo rendere anche più spettacolare, proprio come i trick dei giocatori “in pixel”.
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Oltre a ricreare quelle giocate “da PlayStation”, nell’ideare lo SlamBall, Gordon aveva in mente anche un altro obiettivo: quello di “creare uno sport dove tutti si sentissero un po’ supereroi”. E se per volare un po’ come Superman ci pensano i tappeti elastici, a rendere i giocatori dello SlamBall una sorta di Spiderman o di Daredevil sono i loro soprannomi. Nel caso di Marco si tratta di “White”: “un nomignolo che mi hanno affibbiato i miei compagni di squadra americani a Rimini, e che mi è rimasto. Da quel momento tutti mi hanno sempre chiamato così, tanto che ad un torneo mi segnarono come “White” senza specificare il mio vero nome e cognome: ormai mi conoscevano con quel soprannome e per questo me lo poterò anche nello SlamBall”.
Se Marco riuscirà a lasciare il segno in questo sport sarà solo il campo a dirlo; ma vista la sua determinazione, il suo entusiasmo e la sua inventiva, siamo sicuri che la sua “schiacciata” saprà conquistare gli appassionati di questo sport. Ed essendo il primo italiano a giungere a questi livelli, per noi “White” è già un supereroe!
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L'articolo originale è pubblicato su BasketLive.it 

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